Procedimento patrocinato dallo Studio Legale Filesi
LA MASSIMA
L’eccezione di usurarietà dell’interesse moratorio complessivamente determinato, per effetto della combinazione delle discipline convenzionali, non consente l’accoglimento della tesi mirante all’azzeramento (anche) dell’interesse corrispettivo ed alla condanna alla ripetizione dell’indebito, costituito dagli interessi corrispettivi versati nel corso del rapporto.
Questo il principio come ricavabile dalla ordinanza del Tribunale di Brescia, sezione seconda, Giudice Dott. Giuseppe Magnoli, pubblicata in data 30 settembre 2016.
IL CASO
Una società di leasing conveniva in giudizio la parte utilizzatrice, con rito sommario ex artt.702 bis e segg., invocando l’accertamento e la declaratoria in via principale, della intervenuta risoluzione contrattuale, come comminata ai sensi dell’art. 1456 c.c. ed in subordine per la pronuncia comunque di risoluzione del contratto di leasing immobiliare, causa l’inadempimento del lessee all’obbligo di pagamenti dei canoni, ai sensi dell’art. 1453 c.c; con la condanna quindi di parte resistente all’immediato rilascio dell’immobile, nella disponibilità della legittima proprietaria.
Costituendosi in giudizio, la società convenuta invocava in via pregiudiziale, l’accertamento e la declaratoria della incompetenza territoriale del giudice adito ed in via preliminare la conversione del rito, ex art. 702 ter, comma 3, c.p.c. In via principale, invocava il rigetto delle domande di parte ricorrente, ed in subordine la condanna di essa attrice alla restituzione dei canoni versati oltre iva, detratto l’equo compenso e l’importo dovuto al lessor a titolo di risarcimento del danno, previo espletamento di consulenza tecnica d’ufficio.
A cagione della invocata CTU, tale da consentire il mutamento del rito, la resistente eccepiva in primis l’usurarietà degli interessi di mora, in ragione della quale essa, eventualmente, avrebbe potuto ritenersi morosa solo nel pagamento del capitale, non essendo dovuti gli interessi ai sensi dell’art. 1815 co. 2 c.c.; la concedente, inoltre, si sarebbe indebitamente avvalsa della clausola risolutiva espressa, a fronte del presunto mancato versamento da parte dell’utilizzatrice dei canoni della locazione finanziaria; detto inadempimento, quand’anche effettivo, non poteva ritenersi grave.
Né a contrastare il rilievo della scarsa gravità ex art.1455 c.c. avrebbe potuto farsi richiamo alla predeterminazione convenzionale della gravità dell’inadempimento in sede di clausola risolutiva espressa, ex art.1456 c.c., stante la genericità di quest’ultima, da intendersi pertanto quale mera clausola di stile. Infine sarebbe mancato il presupposto previsto dalla legge perché si produca l’effetto risolutivo, costituito dalla manifestazione della parte interessata della volontà di avvalersi della clausola, mentre nella specie sarebbe mancata qualsiasi diffida in tal senso.
Orbene il Tribunale di Brescia, dichiarata la infondatezza della eccezione di incompetenza territoriale del giudice adito, in ragione dell’intervenuta approvazione per iscritto, ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.p.c. della clausola contrattuale, oltre che respinta la eccezione di nullità, per genericità ed indeterminatezza, della clausola risolutiva espressa, giacchè dal tenore della clausola, tutt’altro che generica, si faceva chiaro riferimento alla gravità dell’inadempimento anche per il mancato pagamento di un solo canone periodico, ha poi di seguito immediatamente affrontato le eccezioni di merito di parte resistente, giusta le quali gli interessi convenzionalmente pattuiti, in relazione al disposto di cui all’art. 1815 cpv c.c., avrebbero dovuto azzerarsi in ragione del relativo superamento del tasso soglia, per effetto dell’incidenza del tasso di mora.
Richiamati quindi i principi già noti nella materia, in primis il DM attuativo della legge 108 (24.09.1998 n.1090200 in GU 30.09.1998, al numero 6, lettera d) del punto C3 (metodologie di calcolo del TEG) il quale ha espressamente affermato che <<sono esclusi…gli interessi di mora e gli oneri assimilabili contrattualmente previsti per il caso di inadempimento di un obbligo>> il Tribunale in commento ha quindi affermato che la clausola penale e quella di determinazione dell’interesse moratorio, non possono determinare realizzazione di usura, né oggettiva, né soggettiva.
Sempre sulla questione dell’incidenza sul tasso soglia usura della clausola relativa al tasso mora, così come di altre clausole analoghe (penale secca per il ritardo; indennizzo per estinzione anticipata rapporto) aggiungendo ulteriori considerazioni, a conforto della valutazione già precedentemente espressa, con riferimento, nello specifico, al tema delle conseguenze derivanti dall’eventuale, ipotetico, accoglimento della tesi di parte resistente, in ordine all’affermata rilevanza, per l’usura, del tasso mora.
A tale riguardo, richiamava in primis l’art. 1815 cpv c.c., che afferma l’invalidità della clausola di pattuizione di interesse usurario; quindi, determinava le conseguenze di tale nullità, disponendo che in luogo del tasso di interesse stabilito dall’art. 1284 c.c., richiamato dal primo comma dell’art.1815 c.c. 2, nessun interesse debba essere riconosciuto in favore del mutuante.
La disposizione testè citata, ha affermato però il Tribunale, debba riferirsi al solo tasso di interesse corrispettivo, elemento costitutivo necessario, sul piano causale, del tipo negoziale “mutuo oneroso”, e non anche, invece, al tasso moratorio, il quale assolve alla ben diversa funzione della predeterminazione forfettaria del danno risarcibile, secondo il disposto di cui al secondo comma dell’art.1224 cc, con finalità analoghe a quelle proprie della clausola penale.
Affermata, quindi, la permanente diversità ontologica tra interesse corrispettivo ed interesse moratorio, integrante il primo la remunerazione concordata per l’attuazione del programma contrattuale ed il secondo il risarcimento convenzionalmente predeterminato per l’eventuale inadempienza, è stata al pari affermata nel caso di specie la correlata autonomia delle pattuizioni contrattuali, relativi all’uno ed all’altro tipo di interesse, al punto che anche laddove eventualmente ricompresa nel medesimo articolo del contratto, la clausola di determinazione dell’interesse moratorio è autonoma e ben distinta da quella di determinazione dell’interesse corrispettivo; dal ragionamento che precede, derivando che l’eventuale invalidità della clausola relativa al tasso moratorio, ovvero di quella contemplante la penale secca per il ritardo nel pagamento, ovvero di quella in tema di indennizzo in conseguenza di risoluzione anticipata del rapporto, ovvero, infine, delle tre clausole sanzionatorie unitariamente considerate, non si estende a quella relativa all’interesse corrispettivo, che resta valida e pienamente efficace, anche nel caso in cui la clausola relativa all’interesse moratorio risulti nulla perché usuraria.
Conclusione, questa ultima, imposta, che sempre il magistrato in sentenza fa discendere sia dallo stesso testo letterale dell’art. 1815 cpv c.c., (il quale muove appunto dall’affermazione della nullità della clausola usuraria, per poi trarne le conseguenze del caso, ossia l’azzeramento dell’interesse che vi si riferisce, sicchè se il tasso soglia viene superato dall’interesse moratorio ma non anche da quello corrispettivo, la pattuizione del primo è nulla ma non quella del secondo) e quindi già sul piano della logica formale, sia, ed il ragionamento non cambia, dal punto di vista funzionale, in correlazione alla ratio della disposizione.
Quest’ultima mira con ogni evidenza a colpire gli squilibri che derivano nell’economia del rapporto contrattuale dall’applicazione di una disciplina orientata tutta a generare vantaggi a favore della parte forte del contratto ed in pregiudizio di quella debole.
La previsione di un tasso di interesse moratorio eccedente il tasso soglia usura – così come quella di un trattamento sanzionatorio complessivo, conseguente all’applicazione del tasso mora combinata a quella della penale secca per il ritardo ed a quella in tema di indennizzo per anticipata cessazione del rapporto, ad avviso del giudice bresciano potrebbe generare effettivamente uno squilibrio, costituito dalla pressione psicologica esercitata sull’utilizzatore in ragione dei rischi correlati all’eventuale sua futura inadempienza; in tale senso potendosi ammettere in astratto l’esperimento, nel corso del rapporto, anche in assenza di inadempimento, e quindi di applicazione del tasso mora, di un’azione di mero accertamento dell’usurarietà della clausola in oggetto; dall’eventuale accoglimento di una siffatta domanda derivando quindi al concedente, quale conseguenza dell’inefficacia della clausola recante determinazione convenzionale dell’interesse moratorio, ex art.1224 cc, l’onere di fornire la prova dell’esistenza di un danno da ritardo ulteriore, rispetto all’interesse corrispettivo.
Quel che invece esclude lo stesso giudice, è che si possano mescolare i piani, quello dell’interesse corrispettivo, che è dovuto sempre, con quello dell’interesse moratorio, che è dovuto solo in caso di ritardo nel pagamento del canone, e quindi in caso di inadempimento. In tal modo pretendendosi di incidere – ponendola nel nulla – sulla (valida) pattuizione degli interessi corrispettivi, per il mero tramite dell’accertamento dell’invalidità della pattuizione dell’interesse moratorio; ciò che si era verificato nella fattispecie in commento.
Parte resistente in ricorso, in buona sostanza, non poneva in discussione la validità della pattuizione sugli interessi corrispettivi (cioè quelli propri del leasing), sicchè quand’anche ritenuto fondato l’assunto circa l’usurarietà dell’interesse moratorio complessivamente determinato, per effetto della combinazione delle discipline convenzionali sopra richiamate, non ne poteva comunque conseguire l’accoglimento della tesi fatta valere, mirante all’azzeramento (anche) dell’interesse corrispettivo ed alla condanna alla ripetizione dell’indebito, costituito dagli interessi corrispettivi versati nel corso del rapporto.
Dalla evidente fondatezza della domanda attorea già sul piano documentale, derivava il rigetto della richiesta di conversione del rito, non sussistendo esigenze istruttorie che la imponessero, e quindi il giudice accoglieva integralmente la domanda del lessor, volta all’ordine di riconsegna del bene immobile concesso in locazione finanziaria, quale conseguenza della legittima comminatoria della risoluzione contrattuale.
COMMENTO
In questa stessa rivista, è stata già commentata sotto altro profilo, la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 16050/16, afferente la qualificazione giuridica del rapporto di locazione finanziaria immobiliare (nel caso deciso dai giudici della legge un leasing traslativo) e gli effetti di detta qualificazione nella ipotesi di richiamo sempre con lo strumento del rito sommario di cognizione, all’art. 1526 c.c. Orbene e per quanto possa occorrere in termini di consapevolezza, la ordinanza pronunciata dal Tribunale di Brescia nel caso in commento, oltre che affinare il ragionamento sulla diversità ontologica dell’interesse corrispettivo rispetto all’interesse di mora e quindi mutuando la giurisprudenza sul punto favorevole in ambito squisitamente bancario, afferma senza dubbio alcuno anche la natura di finanziamento stretto, come sottesa ai rapporti contrattuali area leasing, indipendentemente dalla qualificazione giuridica del rapporto, traslativo e/o di mero godimento, attribuita allo stesso. Solo ed infatti con la affermazione implicita di una operazione di finanziamento puro, può giungersi alle conclusioni cui perviene il giudice di Brescia, che cita i principi derivanti dal richiamo avversario all’art. 1815 c.c.; facendo così prevalere un ragionamento di natura squisitamente bancaria in senso stretto, sulla altrimenti prevalenza dei principi come derivanti dal richiamo all’art. 1526 c.c.; nessun dubbio infatti a parere di chi scrive, sulla prevalente natura traslativa dei contratti di locazione finanziaria immobiliare, ma è altresì evidente che le conseguenze derivanti dall’inadempimento del lessee, sotto il profilo pratico, resistono e la pronuncia in esame ne è prova, allo storico richiamo alla analogia juris, ex 1526 c.c.
La tendenziale ricerca, da parte dei giudici di merito, di equilibri nei rapporti tra concedente ed utilizzatore, al punto di ricorrere costantemente al ragionamento ad excludendum le tesi tradizionali della vendita con riserva della proprietà, nei casi concreti, prima di giungere alla affermazione dei principi generali che derivano dall’inadempimento di una parte nei confronti dell’altra, costituisce e costituirà ancora per molto il fulcro di ogni decisione in ambito leasing; detta tipologia di rapporto, proprio perché derivante dalla autonomia contrattuale, si afferma e quindi più sul piano processuale che su quello del diritto sostanziale ed è all’interno del primo che cresce e si fortifica.
Le riserve espresse dal Giudice di Brescia con la odierna decisione, che a anche a costo di violare inconsapevole il principio dispositivo, accenna ai diversi strumenti dell’actio di accertamento preventiva come in astratto consentita al lessee, in contestazione agli istituti di tutela accessoria del credito e/o della azione comunque consentita al lessee, per tradizione derivante con il richiamo al comma 1 dell’art. 1526 c.c., costituiscono quindi le premesse per l’approntamento di idonee linee difensive, a tutela del contratto innominato, nella consapevolezza che gli argomenti esposti con le sopra definite “riserve”, faranno quasi sempre parte del tema decisorio di una lite.
Per altri precedenti si veda:
LEASING FINANZIARIO: IN CASO DI PREVISIONE DEL TASSO DI INTERESSE VARIABILE, NON VI È ALCUN DERIVATO IMPLICITO
IL RAPPORTO NON PRESENTA ALCUN CARATTERE ALEATORIO
Ordinanza | Tribunale di Brescia, Dott. Giuseppe Magnoli | 18.07.2016
LEASING TRASLATIVO: NELL’AZIONE DI RICONSEGNA DEL BENE SI APPLICA L’ART. 1526 COMMA 1 E 2 C.C.
LA PARTE CONCEDENTE HA DIRITTO ALL’EQUO COMPENSO PER L’USO DELLA COSA, OLTRE AL RISARCIMENTO DEL DANNO
Cassazione civile, sez. terza, Pres. Vivaldi – Rel. Tatangelo | 02.08.2016 | n.16050
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