ISSN 2385-1376
Testo massima
Si ringrazia per la segnalazione l’Avv. Alberto Sandrini
Quand’anche si volesse ritenere che anche gli interessi di mora debbano essere rispettosi del limite legale antiusura, tesi per la quale sussiste ancora incertezza giurisprudenziale in assenza di una previsione legislativa specifica al riguardo e che possa determinare per tali interessi una specifica soglia, quest’ultima deve venire calcolata con i criteri dettati dai decreti trimestrali, con la maggiorazione pari a 2,1 punti percentuali, secondo la stessa Banca d’Italia e la sua nota di chiarimento in materia di applicazione delle legge antiusura del 3.7.13.
La sentenza della Cassazione n. 350/13 non ha mai espresso come principio la sommatoria dei tassi di interessi nella misura in cui il tasso corrispettivo e quello di mora hanno funzione e natura e applicazione del tutto diversi.
La previsione della cd clausola di salvaguardia evita l’automatico superamento del tasso soglia.
È improponibile la domanda dell’utilizzatore volta ad ottenere l’applicazione dell’art.1526 cc (restituzione delle rate riscosse salvo equo compenso ed eventuale risarcimento del danno in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore), quando il bene concesso in leasing, e restituito a seguito della risoluzione, non sia stato ancora rivenduto dal concedente.
Senza conoscere, infatti, quale possa essere il ricavato dalla vendita del bene o dal suo riutilizzo, secondo il valore commerciale che il bene abbia allo stato, manca un presupposto essenziale per applicare la disciplina pattizia regolante gli effetti dell’anticipata risoluzione del contratto convenuta fra le parti, con la prevista compensazione della posizione debitoria dell’utilizzatrice con le somme ricevute in utile dalla concedente e la possibilità di riattribuzione dell’eccedenza eventuale al debitore stesso, che sola possa fare apprezzare se sussista un indebito vantaggio in favore della società finanziaria che giustifichi la sostituzione della disciplina legale a quella contrattuale, e quindi il ricorso alla norma di cui all’art. 1526 cc.
Sono questi i principi di diritto affermati dal Tribunale di Milano con la sentenza n.14394 del 3.12.2014, che ha risolto il contenzioso tra il cliente-utilizzatore (ed il suo fideiussore) e la società di leasing-concedente un’imbarcazione in locazione finanziaria.
Nella specie, il contratto di leasing si era risolto per inadempimento dell’utilizzatore, con il conseguente effetto restitutorio dell’imbarcazione in favore della concedente, ed il cliente aveva convenuto in giudizio la società di leasing, al fine di ottenere pronuncia declaratoria di nullità della clausola feneratizia, per effetto della dedotta usurarietà dei tassi di mora, sul presupposto della additività di questi ultimi al valore percentuale del tasso di leasing e del raffronto tra tale risultato ed il tasso soglia.
L’utilizzatore chiedeva, inoltre, che venisse fatta applicazione dell’art.1526 cc (dettato in materia di vendita con riserva di proprietà, ma da più parti ritenuta applicabile alle fattispecie di leasing c.d. traslativo), con la conseguente restituzione dei canoni di leasing già versati, salvo “equo compenso” per l’utilizzo del bene (ed eventuale risarcimento del danno), in favore della società concedente.
La società di leasing, dal canto proprio, contestava sia l’applicabilità dell’art. 1526 cc alla fattispecie in esame, ma soprattutto l’infondatezza della dedotta usurarietà del contratto, sulla base della semplice notazione della impossibilità di sommare i valori percentuali dei due tassi ai fini della verifica dell’usura oggettiva (secondo ormai consolidata giurisprudenza), nonché per effetto della pattuizione della c.d. clausola di salvaguardia.
Il Tribunale milanese è addivenuto al rigetto integrale delle doglianze di parte attorea, con motivazione degna di nota soprattutto per quanto concerne la questione della dedotta usurarietà oggettiva.
In particolare, riprendendo un “coraggioso” orientamento, che va progressivamente affermandosi nella giurisprudenza di merito, il Giudice meneghino ha anzitutto premesso l’incertezza giurisprudenziale circa la riconducibilità anche degli interessi moratori alla disciplina antiusura (per le note differenze ontologiche e funzionali rispetto alla categoria degli interessi corrispettivi, rispetto ai quali la normativa del ’96 sembra unicamente attagliarsi), per poi affermare che non è possibile raffrontare il valore del tasso di mora alla soglia individuata con riferimento agli interessi corrispettivi.
Il problema è ormai noto e concerne, soprattutto, la circostanza che la Banca d’Italia, nello svolgere la propria attività di rilevazione dei tassi medi, non ha mai incluso in tali indici anche il valore dei tassi moratori, rilevando separatamente, a decorrere dal 2003, la media delle maggiorazioni a titolo di mora (2,1 punti percentuali) a fini statistici, come meglio chiarito anche dalle ultime istruzioni del 3.7.2013.
Tale separata rilevazione è coerente, sia con la diversa funzione degli interessi moratori volti non a remunerare il creditore, ma a predeterminare il risarcimento del danno da ritardo nell’adempimento del debitore sia con l’esigenza di evitare un innalzamento eccessivo delle soglie di usura, consentendo agli intermediari creditizi di praticare condizioni più svantaggiose dei mutuatari (già in fase fisiologica del rapporto).
Ebbene, siccome il tasso soglia si determina su una base di calcolo che non include, né ha mai incluso, il valore dei tassi di mora, i problemi sollevati da quell’inciso “interessi a qualunque titolo” (introdotto dalla normativa del 2000-2001, di interpretazione autentica degli artt. 644 cp e 1815, secondo comma, cc), che ha indotto la giurisprudenza di legittimità (da ultimo con la sent.350/2013) a sancire la necessità di sottoporre anche gli interessi di mora al controllo di usurarietà oggettiva, la più attenta giurisprudenza di merito tra la quale si ascrive anche il Tribunale di Milano, con la pronunzia qui in commento ha sancito la necessità di individuare per gli interessi moratori una differente soglia di usurarietà, calcolata tenendo conto della maggiorazione del 2,1% di cui ai Decreti Trimestrali di rilevazione.
Così, il Tribunale di Milano, facendo applicazione di un principio già formulato, tra gli altri, dal Tribunale di Cremona (ordinanza del 30.10.2014), ha rigettato la deduzione di usurarietà oggettiva del contratto di leasing, precisando altresì che, tra gli altri errori in cui era incorsa parte attrice, vi era l’aver mal interpretato la nota sentenza n.350/2013 della Corte di Cassazione, la quale non ha mai affermato la necessità di sommare il valore del tasso corrispettivo e del tasso moratorio ai fini del raffronto alle soglie di usura, essendosi come noto limitatasi a stabilire che “anche gli interessi di mora” devono rispettare le soglie (senza in alcun modo negare l’individuazione soglie diverse) di usura.
Inoltre la previsione della cd clausola di salvaguardia convenuta fra le parti all’art. 11 delle condizioni generali di contratto, evitava, nel caso di specie, che il conteggio degli interessi di mora potesse sforare dal tasso soglia, prevedendo l’eventuale riconduzione al di sotto del limite legale, per sforamenti eventuali e/o non prevedibili dal concedente (tra i quali, in ogni caso, l’inadempimento dell’utilizzatore).
Interessante anche il principio espresso in relazione alla richiesta applicazione della disciplina di cui all’art.1526 cc.
Trattasi della normativa codicistica dettata in materia di vendita con riserva di proprietà, ma ritenuta dalla più gran parte della giurisprudenza applicabile al contratto di leasing, sempre che quest’ultimo abbia carattere “traslativo” e non di mero “godimento”, vale a dire nei casi in cui il bene oggetto della locazione mantenga un apprezzabile valore all’esito del versamento dell’ultimo canone di leasing (che solitamente prevede un’opzione di riscatto finale).
Applicando tale disciplina al contratto di leasing, in caso di risoluzione per inadempimento, l’utilizzatore, chiamato a restituire il bene oggetto di locazione finanziaria, avrebbe diritto alla restituzione dei canoni versati, dedotto l’equo compenso per l’utilizzo della cosa, in favore del concedente, salvo in ogni caso il risarcimento del danno.
La ratio della disciplina è quella di evitare che il concedente riceva un eccessivo (ed indebito) vantaggio dall’inadempimento dell’utilizzatore, anche se non poche volte la giurisprudenza ha ritenuto legittima la clausola che prevede a titolo di penalità per l’inadempimento il diritto del concedente a ritenere i canoni già versati, nonostante la restituzione del bene locato.
Ciò premesso, il Giudice milanese ha sancito l’improponibilità della domanda di parte attrice, tenuto conto delle concrete vicende del caso di specie.
Ed infatti, l’imbarcazione, restituita alla società finanziatrice da poco tempo, non era stata ancora rivenduta e/o riutilizzata, con la conseguenza che, non potendo valutare il reale ricavato della vendita e/o del riutilizzo, mancava un presupposto essenziale per l’applicabilità dell’art.1526 cc in via analogica, non potendosi effettivamente stabilire, né se la società finanziatrice ottenga un indebito vantaggio, né se sia effettivamente equa anche per l’utilizzatore la sostituzione della disciplina legale a quella contrattuale.
Inoltre, mancando un parametro di valutazione, era altresì indeterminabile la quantificazione del risarcimento del danno cui ha diritto la concedente secondo il dispositivo in parola.
In definitiva, il Tribunale ha ritenuto non proponibile allo stato la domanda, giungendo, per il resto, all’integrale rigetto delle doglianze del cliente utilizzatore, condannato altresì a rifondere le spese di lite.
Testo del provvedimento
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