ISSN 2385-1376
Testo massima
Si ringrazia per la segnalazione della sentenza il dott. Alberto Leidi
Ai sensi della L. 28 febbraio 2001 n. 24, art. 1, gli interessi devono ritenersi usurari se eccedono il limite legale al momento della loro pattuizione e
non del loro pagamento e ciò a prescindere dal fatto che il reato di usura possa ritenersi consumato in tale secondo momento.
È priva di adeguata motivazione la pronuncia del Giudice che, nel valutare la natura usuraria di un finanziamento, non chiarisca a quale provvedimento normativo (di rilevazione dei tassi effettivi globali medi) debba farsi riferimento per determinare il “tasso soglia”, né a quale tra i diversi valori in esso elencati abbia inteso identificare come effettiva base per il calcolo della natura usuraria dei tassi praticati.
Così ha statuito la Cassazione Penale, con la sentenza n.8353 del 20.02.2013, annullando parzialmente la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro, che aveva condannato alcuni soggetti per reati di associazione di tipo mafioso, favoreggiamento ed usura, a seguito di un travagliato iter processuale, che aveva già coinvolto la Corte di legittimità, la quale aveva annullato con rinvio la prima pronuncia del medesimo Giudice d’Appello.
Il ricorso, presentato da tutti gli imputati condannati è stato articolato in una pluralità di motivi, ma, per quanto concerne la presente analisi, appare opportuno soffermarsi sulla censura relativa alla carente motivazione sulla condanna per il reato di usura (peraltro, unico motivo a trovare accoglimento).
In particolare, la Cassazione si è soffermata sul dictum del giudice di merito, il quale aveva determinato, quasi laconicamente, “in misura superiore al 10%” il tasso asseritamente usuraio degli interessi applicati al prestito concesso al cliente, senza chiarire per quali ragioni tale indefinita “misura” avrebbe implicato necessariamente la natura per l’appunto usuraia di tali interessi alla luce della normativa vigente sul punto all’epoca (e cioè nell’arco temporale di contestazione compreso tra il febbraio 2002 e l’agosto 2003).
In ragione di tale generica determinazione, la pronuncia è stata ritenuta censurabile, atteso che, ai sensi della legge 28 febbraio 2001, n.24, art.1 (di interpretazione autentica dell’art.1815, comma 2 cc) gli interessi devono ritenersi usurari se eccedono il limite legale al momento della loro pattuizione.
In tal senso, è stata richiamata una precedente pronuncia di legittimità (Cass. Pen. Sez. Feriale, n. 32362 del 19 agosto 2010), la quale aveva già chiarito che, ai fini del verificarsi di una fattispecie di usura, a rilevare sia il momento della conclusione del contratto, a prescindere dal fatto che il reato di usura possa ritenersi consumato in un secondo momento.
Ebbene, siccome la Corte territoriale aveva fatto, appunto, riferimento al limite antiusura “vigente al momento della pattuizione”, senza precisare quale dei decreti ministeriali trimestrali dovesse concretamente prendersi a riferimento per la valutazione di usurarietà del tasso, gli ermellini hanno notato come la genericità di tale statuizione fosse d’ostacolo alla verifica di correttezza della valutazione compiuta in sentenza.
Peraltro, anche volendo individuare il tasso soglia in base al primo riferimento temporale all’esame del Giudice d’appello, è stata chiaramente smentita l’usurarietà del tasso praticato dagli imputati.
A ben vedere, ha argomentato ancora il Supremo Collegio, il reato di usura avrebbe potuto configurarsi anche in relazione al disposto di cui al comma 3 cpv dell’art.644 cp (c.d. usura “residuale”), vale a dire la fattispecie per la quale sono comunque usurari gli interessi, anche se inferiori al limite di legge, “e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria“. Tuttavia, se la Corte di merito avesse voluto configurare il reato di usura in tal modo, avrebbe dovuto specificamente argomentare cosa che non aveva fatto in ordine alla sproporzione tra le prestazioni, ovvero all’approfittamento della situazione di difficoltà economica o finanziaria della persona offesa.
Tali carenze motivazionali hanno condotto all’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al capo relativo all’imputazione per il reato di usura, con rinvio alla Corte d’Appello di Catanzaro per un nuovo esame sul punto, con rigetto integrale di tutti gli altri motivi di ricorso.
La pronuncia in esame, leggendo tra le righe ed al di là dei profili strettamente penalistici può ritenersi rilevante per aver richiamato espressamente, nel configurare la fattispecie usuraria, il dettato della legge 28 febbraio 2001, n.24, art.1 (di interpretazione autentica dell’art.1815, comma 2 cc), mostrando di prestare adesione a quell’orientamento che accorda rilievo al solo momento della pattuizione degli interessi e non al momento del pagamento degli stessi.
La configurabilità della c.d. usura sopravvenuta, infatti, è particolarmente discussa in dottrina ed in giurisprudenza, anche se, dopo l’intervento chiarificatore del legislatore del 2000-2001, la normativa non sembrerebbe lasciar spazio ad interpretazioni differenti da quella emergente dal dato letterale.
Di tale argomento si è ampiamente dato conto su questa rivista, in particolare in sede di commento della sentenza n.21885/2013 della Cassazione civile, nella quale gli ermellini sembrano aver operato un revirement rispetto alle precedenti pronunce n.602 e 603 del 2013, almeno rispetto all’inconfigurabilità dell’usura sopravvenuta per rapporti sorti antecedentemente all’entrata in vigore della legge 108/1996.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi presentati dai difensori di:
F.R., nato a (OMISSIS);
F.F., nato a (OMISSIS);
R.S., nato a (OMISSIS);
F.F., nato a (OMISSIS);
G.D., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 24/11/2011 della Corte d’appello di Catanzaro;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. IZZO Gioacchino, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi;
uditi per gli imputati gli avv. (OMISSIS);, (OMISSIS);, che hanno concluso tutti chiedendo l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza del 19 dicembre 2006 resa a seguito di giudizio abbreviato il G.u.p. presso il Tribunale di Catanzaro condannava, tra gli altri, alle pene di giustizia F.R., F.F., G.D., R.S. e F.F. per i reati, rispettivamente loro contestati, di associazione di tipo mafioso, favoreggiamento, usura, elusione delle misure di prevenzione patrimoniale e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Con sentenza del 1 luglio 2008 la Corte d’appello di Catanzaro confermava le condanna, riformando la pronunzia di primo grado in merito al trattamento sanzionatorio riservato agli imputati G. e F.F.. La sentenza d’appello veniva però annullata con rinvio il 18 maggio 2010 dalla prima Sezione di questa Corte, la quale riteneva apparente la motivazione svolta dai giudici distrettuali in quanto meramente riproduttiva di quella resa dal G.u.p. di Catanzaro.
2. A seguito del giudizio di rinvio la Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza del 24 novembre 2011, confermava nuovamente, per quanto qui di interesse, la condanna di F.R., F.F., R.S. e G.D. per il reato associativo, relativo ad un sodalizio mafioso facente capo a F.R. collegato alla cosca M. di Limbadi ed attivo nella zona San Gregorio d’Ippona, nonchè per quelli di usura e favoreggiamento rispettivamente contestati, dichiarando invece non doversi procedere nei confronti dei menzionati imputati e di F.F. per gli ulteriori reati per cui era stata pronunziata condanna in primo grado per l’intervenuta prescrizione dei medesimi. Conseguentemente la Corte territoriale provvedeva alla rimodulazione delle pene irrogate nel primo grado di giudizio agli imputati di cui confermava la condanna.
3. Avverso la sentenza ricorrono tutti gli imputati per cui è stata pronunziata condanna, nonchè, F.F..
3.1 Con il ricorso a firma dell’avv. (OMISSIS) presentato nell’interesse di F.R. e F.F. si deducono:
– violazione della legge penale processuale e vizi motivazionali della sentenza impugnata in merito all’eccepita inutilizzabilità delle intercettazioni su cui si fonda l’affermazione di responsabilità dei due imputati per il difetto delle condizioni legittimanti la loro autorizzazione e della motivazione dei relativi decreti, nonchè, con specifico riguardo a quelle ambientali eseguite in carcere decretate dal pubblico ministero ex art. 267 c.p.p., comma 2, per l’insussistenza del presupposto dell’urgenza – testimoniata dal notevole lasso di tempo intercorso tra l’adozione del relativo decreto e l’inizio delle operazioni di captazione – e per la mancata giustificazione delle ragioni che avevano consentito l’esternalizzazione di queste ultime;
– violazione dell’art. 649 c.p.p. ed omessa motivazione in merito all’eccezione di improcedibilità dell’azione penale sollevata con i motivi d’appello in ragione del fatto che i due imputati già erano stati condannati alla fine degli anni ottanta con sentenza divenuta definitiva per fattispecie associativa sovrapponibile a quella contestata nel presente procedimento;
– vizi motivazionali in ordine all’affermata responsabilità degli imputati per il delitto di associazione di tipo mafioso, fondata tra l’altro sulla prova di fatti di usura la cui riconducibilità all’attività della asserita associazione mafiosa è rimasta indimostrata e sulle generiche dichiarazioni di collaboratori, asseritamente inidonee a comprovare la stessa sussistenza del sodalizio ipotizzato.
3.2 Con autonomo ricorso F.F. personalmente deduce nuovamente la violazione del ne bis in idem, rilevando di essere stato definitivamente assolto nel 1990 – e non condannato – per contestazione in tutto identica a quella oggetto del capo 1) e lamentando che le dichiarazioni dei collaboratori utilizzate dalla Corte territoriale riguarderebbero per l’appunto un fatto già coperto dal giudicato, nel mentre sarebbe illegittima la loro attualizzazione attraverso presunti riscontri (tratti dall’attività di intercettazione) ad oggetto condotte consumate a distanza di ventanni dal periodo cui le stesse si riferiscono, rimanendo comunque indimostrata l’esistenza del sodalizio nel periodo intermedio. Infine il ricorrente eccepisce l’omessa considerazione da parte dei giudici di merito dell’eccezione di inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti fuori termine sollevata con i motivi d’appello.
3.3 Con il ricorso presentato nell’interesse di R.S. dall’avv. (OMISSIS)si deducono invece:
– l’inutilizzabilità delle intercettazioni poste a fondamento del giudizio di responsabilità dell’imputato per carenza dei presupposti per la loro autorizzazione, attesa la genericità degli elementi indiziari indicati nei provvedimenti autorizzativi, e in ragione della motivazione meramente apparente dei decreti di esternalizzazione delle operazioni di captazione; in proposito il ricorrente osserva altresì come – contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale nell’impugnata sentenza – quelle prospettate sarebbero inutilizzabilità patologiche e come tali rilevanti anche nel giudizio abbreviato; infine il ricorrente denuncia sul punto anche l’omessa motivazione in merito alla pur eccepita insussistenza della necessità delle captazioni per la prosecuzione delle indagini;
– la violazione del divieto di reformatio in peius e comunque l’intervenuta prescrizione del reato contestato al capo 1); infatti secondo il ricorrente nella sentenza impugnata al R. sarebbe stata erroneamente attribuita la qualifica di promotore e organizzatore dell’associazione mafiosa contestata al capo 1), nel mentre egli era stato condannato nel primo grado di giudizio quale mero partecipe alla medesima; errore al quale sarebbe conseguita l’illegale rideterminazione della pena, la cui base sarebbe stata calcolata in riferimento ai limiti edittali previsti dall’art. 416 bis c.p., comma 2, anzichè a quelli contemplati nel primo comma dello stesso articolo, impedendo in tal modo di rilevare il compimento della prescrizione nel termine di quindici anni dal momento del recesso dell’imputato dal sodalizio nel 1995;
– la contraddittorietà della motivazione dell’impugnata sentenza nel punto in cui sostanzialmente afferma la partecipazione dell’imputato ad un sodalizio la cui operatività sarebbe stata provata in un periodo successivo a quello del suo recesso dal medesimo;
– la violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 3, in merito alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori utilizzate per fondare la prova della sussistenza dell’associazione e della partecipazione alla medesima dell’imputato, nonostante la loro genericità e l’assenza di riscontri esterni, lamentando altresì in proposito come la presunta convergenza tra le stesse affermata dalla Corte territoriale sarebbe in realtà insussistente attesa la loro aspecificità e l’eterogeneità del loro contenuto;
– vizi motivazionali sul punto che precede, nonchè in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 4, nonchè sull’estensibilità della stessa all’imputato, avendo la Corte territoriale in proposito ignorato le obiezioni sollevate con la memoria presentata il 25 febbraio 2008;
– l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal collaboratore S.A. per essersene stato omesso il deposito all’atto della presentazione della richiesta di rinvio a giudizio e ancor prima all’atto della notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p.; in proposito il ricorrente censura altresì la motivazione cui è ricorsa la sentenza impugnata per respingere l’analoga eccezione sollevata con i motivi d’appello, rilevando come l’acquisizione di tali dichiarazioni – assunte per lo più in epoca antecedente alla chiusura delle indagini ed in procedimento collegato condotto dal medesimo pubblico ministero – non potrebbe essere considerato, come invece sostenuto dalla Corte territoriale, quale atto di indagine suppletiva, dovendosi intendere tale solo quell’attività cronologicamente successiva rispetto alla richiesta di rinvio a giudizio collegata ad una sopravvenienza oggettiva e non a scelte opportunistiche del titolare dell’azione penale;
– vizi motivazionali in merito alla ritenuta sussistenza del reato di usura contestato al capo 17) in relazione all’affermata natura usuraia del tasso d’interesse asseritamente praticato dall’imputato sul prestito effettuato in favore di B.N.; in proposito il ricorrente osserva come all’epoca di consumazione del reato il TEGM (Tasso Effettivo Globale Medio) previsto per la categoria di operazioni di riferimento (e cioè quella dei crediti personali da intermediari non bancari) dai D.M. 14 dicembre 2001 fosse del 17,07% e dunque di gran lunga superiore ai tasso contestato in sentenza e che comunque dovrebbe essere correttamente determinato, sulla base delle cifre evocate dai giudici d’appello, nel 10,94%;
– ulteriori vizi motivazionali per l’omessa valutazione della sentenza assolutoria del coimputato del reato di usura pur acquisita nel giudizio d’appello come memoria;
– violazione del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, atteso che l’aggravante ivi prevista sarebbe stata ritenuta in ragione di circostanze (la “vicinanza” del R. al gruppo F. e la “caratura” criminale dell’imputato) inconferenti all’uopo secondo la giurisprudenza di legittimità.
3.4 Nell’interesse di R.S. è stato presentato ricorso anche dall’avv. (OMISSIS), con il quale si deducono:
– vizi motivazionali della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta sussistenza del sodalizio mafioso contestato al capo 1) ed alla partecipazione dell’imputato al medesimo sulle base di dichiarazioni di collaboratori che pure non avevano fatto parte del medesimo; in tal senso si lamenta che le stesse avrebbero dovuto essere considerate come fonti indiziarie da corroborare con riscontri esterni ed individualizzanti, risolvendosi in dichiarazioni de relato o generiche che non attribuiscono all’imputato alcun specifico comportamento inquadrabile nè paradigma associativo contestato; non di meno il ricorrente denuncia la mancata considerazione delle plurime contraddizioni esistenti tra le dichiarazioni in questione, tali dunque da non consentire di ritenerle convergenti, come invece affermato dalla Corte territoriale;
– la violazione art. 416 bis c.p. ed ulteriori vizi motivazionali in merito alla prova della stabilità della partecipazione dell’imputato alla contestata associazione ed all’individuazione di un effettivo ruolo dello stesso all’interno del sodalizio o di comportamenti individuali sintomatici dell’utilizzo da parte del medesimo del metodo mafioso; analoghe censure vengono poi avanzate con riguardo al riconoscimento dell’aggravante del carattere armato dell’associazione ed alla sua estensione all’imputato pur in assenza di elementi da cui dedurre la sua consapevolezza della circostanza;
– la nullità della sentenza per l’omessa valutazione di quella di assoluzione del coimputato del reato di usura acquisita come memoria, nonchè l’omessa motivazione sulla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ad oggetto l’audizione della persona offesa del reato e l’insussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 ritenuta sussistente dalla Corte territoriale sulla base di indici astratti ed estranei alla previsione normativa;
– ulteriori carenze motivazionali del provvedimento impugnato in merito alla mancata concessione delle attenuanti generiche nonostante la riconosciuta risalenza del recesso dal sodalizio da parte dell’imputato;
– l’inutilizzabilità delle dichiarazioni del S. per le medesime ragioni già esposte nel ricorso dell’avv. (OMISSIS);
– l’inutilizzabilità delle intercettazioni condotte sull’utenza del R. e di cui al RIT 41/02, in quanto la motivazione del relativo provvedimento autorizzativo sarebbe insufficiente ed acriticamente riproduttiva della richiesta del pubblico ministero, nonchè fondata sulle dichiarazioni datate di un collaboratore che non avrebbero raggiunto la soglia della sufficienza indiziaria richiesta per l’emissione del provvedimento; non di meno oggetto di doglianza è ancora una volta il decreto con cui è stata autorizzata l’esternalizzazione delle operazioni di captazione, in quanto lo stesso si sarebbe limitato ad evocare l’inidoneità degli apparecchi interni e risulterebbe genericamente motivato sul requisito dell’urgenza; in proposito il ricorrente ripropone le già illustrate censure in merito a quanto affermato dai giudici d’appello sulla natura non patologica dell’inutilizzabilità denunziata e sulla conseguente non rilevabilità nel giudizio abbreviato.
3.5 Con il ricorso presentato nell’interesse di G.D. vengono dedotte:
– l’inutilizzabilità delle intercettazioni condotte sotto il RIT 57/03 perchè anche in questo caso sarebbe immotivato il decreto di esternalizzazione e generica la motivazione resa in proposito dalla Corte territoriale; anche in questo caso il ricorrente contesta poi le conclusioni assunte dai giudici d’appello sulla non rilevabilità di tale vizio nel giudizio abbreviato;
– la violazione dell’art. 416 bis c.p. e l’illogicità della motivazione della sentenza in ordine all’affermata partecipazione del G. al sodalizio contestato al capo 1), osservandosi come la conversazione tra l’imputato e F.R. oggetto di intercettazione in proposito valorizzata dalla Corte territoriale in realtà sia un monologo del F., le cui affermazioni non sarebbero verificabili ben potendo costituire mere millanterie, mentre all’imputato non è stato contestato alcuno dei fatti menzionati dal suo interlocutore; più in generale il ricorrente lamenta che i giudici d’appello non avrebbero individuato in cosa si sarebbe effettivamente concretizzata la contestata condotta partecipativa, svalutando immotivatamente i numerosi danneggiamenti subiti dall’imputato e di per sè logicamente incompatibili con la sua riconosciuta partecipazione al sodalizio.
3.6 Infine con il ricorso presentato nell’interesse di F. F. si lamenta:
– l’inutilizzabilità delle intercettazioni condotte sotto i RIT 445/01 e 518/01 perchè disposte in assenza delle condizioni legittimanti, atteso che i relativi provvedimenti autorizzativi sarebbero fondati sulle dichiarazioni generiche di un collaboratore che ha riferito di fatti avvenuti negli anni ottanta; non di meno quelle di cui al RIT 445/01 soffrirebbero altresì dell’inutilizzabilità derivata in quanto fondate sugli esiti di intercettazioni a loro volta inutilizzabili e quindi sfruttabili come mero spunto investigativo, mentre per quelle di cui al RIT 518/01 non sussisteva la necessaria urgenza per procedere ai sensi dell’art. 267 c.p.p., come dimostrato dal fatto che le relative operazioni hanno avuto inizio solo quindici giorni dopo l’emissione del decreto da parte del pubblico ministero; il ricorrente infine ribadisce le già esaminate censure in merito alla soluzione adottata dalla Corte territoriale sulla rilevabilità del vizio nel giudizio abbreviato; – la violazione dell’art. 129 c.p.p. e l’illogicità della motivazione sulla ritenuta prescrizione del reato in base agli esiti di una intercettazione il cui contenuto in realtà non sarebbe in grado di intaccare la forza probatoria della documentazione da cui risulterebbe come il F. non si sarebbe reso autore della frode contestata al capo 19.
4. Con atto depositato il 27 dicembre 2012 a firma congiunta gli avv. (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno presentato motivi nuovi nell’interesse del R., con i quali:
– si ribadisce l’errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata nel calcolare la pena irrogata all’imputato, determinata con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., comma 2, anzichè a quella prevista dal primo comma dello stesso articolo, per il quale era stato effettivamente condannato nel primo grado di giudizio; viene altresì ribadita l’intervenuta prescrizione del reato associativo, anche perchè in realtà la sentenza avrebbe accertato la partecipazione del R. al sodalizio mafioso entro i limiti delle chiamate in correità valorizzate in motivazione, le quali concordemente narrano di fatti risalenti al più tardi all’inizio degli anni novanta;
– si deduce la violazione dell’art. 627 c.p.p. in quanto la Corte territoriale non si sarebbe attenuta ai consolidati principi in materia di giudizio di rinvio, limitandosi nella valutazione delle chiamate in correità a valorizzare il dato quantitativo, ricavando cioè il dato probatorio dalla sommatoria delle medesime, senza procedere alla necessaria analisi ed al confronto del loro effettivo contenuto rappresentativo ed omettendo la ricerca degli opportuni riscontri estrinseci alle medesime, nonostante la genericità dei contributi dichiarativi in merito al presunto ruolo svolto dal R. in seno alla consorteria mafiosa;
– vengono ribadite le doglianze sulle carenze motivazionali in merito alla ritenuta sussistenza dell’aggravante del carattere armato dell’associazione;
– in merito all’episodio di usura di cui al capo 17) si sottolinea la valenza probatoria della motivazione della sentenza di assoluzione del coimputato P., pure acquisita agli atti e invece pretermessa dai giudici dell’appello, nonchè il mancato accertamento dell’effettiva natura usuraia degli interessi applicati; quanto alla riconosciuta aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, si ribadiscono le doglianze sull’inconsistenza della motivazione resa dalla Corte territoriale e sull’inesistenza di elementi che consentano di ritenere integrata una delle due ipotesi configurate dalla norma incriminatrice;
– infine vengono richiamate le lamentele sull’inutilizzabilità delle intercettazioni svolte a carico del R. e sull’insufficienza della motivazione resa sul punto dalla sentenza impugnata, di cui vengono nuovamente denunciati i limiti anche con riguardo all’eccepita inutilizzabilita delle dichiarazioni del S..
5. Con memoria depositata il 4 gennaio 2013 gli stessi difensori pongono infine l’accento sull’inconsistenza degli elementi utilizzati per attualizzare al 1995 la partecipazione del R. al sodalizio mafioso e vengono altresì ulteriormente richiamate le doglianze già sviluppate con i ricorsi e i motivi aggiunti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi sono infondati e per molti aspetti inammissibili, salvo per quanto si illustrerà in seguito con riguardo al ricorso di R.S..
2. La complessa articolazione della sentenza impugnata e l’altrettanto complesso sviluppo delle censure dei ricorrenti richiedono la trattazione preliminare delle violazioni della legge processuale riferite alle inutilizzabilita dei mezzi di prova acquisiti.
2.1 Le censure, pressochè comuni a tutti i ricorrenti e articolate per molteplici profili già esaminati e correttamente risolti dalla Corte d’appello, riguardano innanzi tutto l’inutilizzabilità delle conversazioni intercettate. In proposito deve essere esaminata prioritariamente la critica mossa alla sentenza impugnata nei ricorsi presentati nell’interesse del R., del G. e del F. F. in merito all’affermata natura fisiologica dell’inutilizzabilità delle intercettazioni determinata dalla violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3 ed alla conseguente irrilevabilità della medesima nel giudizio abbreviato. Il principio è stato richiamato dai giudici dell’appello per respingere le eccezioni sollevate dalle difese sul difetto di motivazione dei decreti di autorizzazione all’esternalizzazione delle operazioni di intercettazione, rifacendosi ad una pronunzia di questa Corte (Sez. 6, n. 2930/10 del 23 ottobre 2009, Ceroni e altri, in motivazione) la quale ha effettivamente ritenuto come le questioni circa la legittimità dell’utilizzo degli impianti diversi da quelli in dotazione della procura della Repubblica non possano essere ricondotte nell’alveo dell’inutilizzabilità patologica e come, pertanto, le irritualità nell’acquisizione dell’atto probatorio di tale tipo debbano ritenersi neutralizzate dalla scelta di tipo abdicativo effettuata dall’imputato in merito al rito, che fa assurgere a dignità di prova gli atti di indagine compiuti senza rispetto delle forme tipiche, con la conseguenza che gli esiti delle intercettazioni sarebbero in tali casi pienamente utilizzabili nel giudizio abbreviato. Tale orientamento non è peraltro incontrastato, avendo, sempre questa Corte, in altra occasione ritenuto – in sintonia con la tesi propugnata dai ricorrenti – che nel giudizio abbreviato è rilevabile, anche d’ufficio, l’inutilizzabilità patologica relativa alla mancata motivazione del decreto del pubblico ministero, con il quale si dispone, per l’esecuzione di operazioni di intercettazione telefonica, l’utilizzo di impianti diversi da quelli installati nella procura della Repubblica (Sez. 6, n. 14099 del 30 gennaio 2007, Caruso e altri, Rv. 236211).
2.2 Per rispondere alle deduzioni dei ricorrenti sul punto non è peraltro necessario dirimere il segnalato contrasto interpretativo.
Infatti all’argomento fondato sulla natura fisiologica dell’inutilizzabilità di cui si tratta la Corte territoriale è ricorsa palesemente ad abundantiam e dopo aver puntualmente e compiutamente confutato i motivi d’appello in merito ai presunti vizi dei decreti di esternalizzazione, talchè anche senza tenerne conto può ritenersi che i giudici del merito abbiano compiutamente risposto alle doglianze difensive. Le censure dei ricorrenti sul punto devono dunque ritenersi infondate.
3. Ancora con riguardo alle intercettazioni le ulteriori doglianze proposte nell’interesse del R. con il ricorso dell’avv. (OMISSIS) devono ritenersi inammissibili in quanto generiche, non avendo provveduto il difensore alla specifica individuazione dell’atto cui si riferiscono le dedotte eccezioni di inutilizzabilità (ex multis Sez. 6, n. 25254 del 24 gennaio 2012, A. e altri, Rv. 252895).
Quanto invece a quelle sollevate con il ricorso a firma dell’avv. (OMISSIS) – che invece ha specificato a quale intercettazione le stesse si riferiscono (e cioè a quella condotta sotto il RIT 41/02) – e sostanzialmente richiamate senza elementi di novità nei motivi aggiunti vergati da entrambe i difensori del R., va rilevato:
– che le censure relative al decreto autorizzativo delle operazioni di intercettazione (allegato al ricorso) sono infondate al limite dell’inammissibilità in quanto il provvedimento è compiutamente motivato in ordine alla sussistenza dei sufficienti indizi di reato, dovendosi ricordare in proposito come debbano ritenersi adeguatamente motivati per relationem i decreti di autorizzazione all’effettuazione di intercettazione di comunicazioni quando in essi il giudice faccia richiamo alle richieste del P.M. ed alle relazioni di servizio della polizia giudiziaria, ponendo così in evidenza, per il fatto di averle prese in esame e fatte proprie, l’iter cognitivo e valutativo seguito per giustificare l’adozione del particolare mezzo di ricerca della prova (Sez. 1, n. 11525 del 3 febbraio 2005, P.M. in proc. Gallace, Rv. 232261);
peraltro deve rilevarsi che il ricorrente si è apoditticamente limitato ad affermare una carenza di autonomia valutativa del decreto, il quale invece evidenzia l’effettiva ponderazione anche di elementi ulteriori rispetto alle dichiarazioni del collaboratore di cui il ricorrente lamenta l’eccessiva risalenza;
– che parimenti infondate risultano le critiche avanzate al decreto ex art. 268 c.p.p., comma 3 del pubblico ministero (anch’esso allegato al ricorso), in quanto lo stesso non si limita ad evocare l’inidoneità degli apparecchi “residenti”, ma espone le specifiche ragioni che l’hanno determinata delle quali opera corretta valutazione alla luce dell’insegnamento di questa Corte per cui il requisito dell’inidoneità o insufficienza degli impianti installati presso la procura della Repubblica deve essere valutato tenendo conto della relazione tra le caratteristiche delle operazioni di intercettazione da svolgere nel caso concreto e le finalità perseguite attraverso tale mezzo di ricerca della prova, per le quali risultano inadeguati gli impianti dell’ufficio di procura e necessario invece il ricorso alle apparecchiature esterne (Sez. 6, n. 2930/10 del 23 ottobre 2009, Ceroni e altri, Rv. 246128); non di meno il medesimo decreto non può ritenersi insufficientemente motivato in relazione al presupposto dell’urgenza, atteso che lo stesso parimenti individua compiutamente le ragioni della stessa, tanto più che la loro valutazione deve peraltro essere correlata a quelle dell’inidoneità, giacchè qualora, come nel caso di specie, questa sia “strutturale” e non temporanea, l’urgenza di procedere all’esternalizza2lone delle captazioni è in qualche modo conseguente all’esigenza stessa di procedere alle operazioni di captazione già autorizzate.
4. Inammissibili e comunque infondate sono le censure sollevate con il primo motivo del ricorso del G. e relative alle intercettazioni condotte sotto il RIT 57/03. Deve infatti rilevarsi come quella eccepita dal ricorrente sia violazione di legge non già prospettata con i motivi d’appello. Non di meno va osservato che il decreto del 19 febbraio 2003 con il quale era stato autorizzato il ricorso agli impianti esterni (presente in atti) contiene adeguata e congrua motivazione in ordine all’indisponibilità di quelli in dotazione, debitamente certificata in pari data dal responsabile della sala d’ascolto della Procura della Repubblica, nonchè sull’urgenza di procedere all’attività di captazione.
5. Quanto alle doglianze sollevate negli altri ricorsi, sempre in ordine all’inutilizzabilità delle intercettazioni, deve rammentarsi come, per consolidato insegnamento di questa Corte, qualora venga eccepita in sede di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, sia onere della parte, a pena di inammissibilità del ricorso per genericità dei motivi, indicare specificamente l’atto asseritamente affetto dal vizio denunciato e curare che tale atto sia comunque effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità, anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione (Sez. 5, n. 37694 del 15 luglio 2008, Rizzo, Rv. 241300; Sez. 4, n. 32747 del 7 giugno 2006, Pizzinga, Rv. 234809; Sez. 4, n. 2375/06 del 3 novembre 2005, Tamarisco e altri, Rv. 232972; Sez. 4, n. 33700 del 9 giugno 2004, Campisi, Rv. 229098 e da ultima Sez. 4, n. 2394/12 del 13 dicembre 2011, Russino e altro, Rv. 251751). I ricorsi di F.R., F.F. e F.F. non risultano dunque in linea con il suddetto principio, non avendo i ricorrenti provveduto alla produzione degli atti dispositivi delle captazioni e di quelli ad oggetto l’esternalizzazione delle medesime cui i rispettivi motivi si riferiscono, atti che non risultano essere presenti nel fascicolo trasmesso dal giudice di merito. Sotto questo profilo, dunque, i suddetti motivi di ricorso devono ritenersi indistintamente inammissibili.
5.1 Va peraltro evidenziato che i motivi in oggetto non potrebbero comunque essere accolti. Quello redatto dall’avv. (OMISSIS) nell’interesse di F.R. e F.F. risulta infatti irrimediabilmente generico, non individuando con precisione gli atti cui le censure sollevate si riferiscono, come invece necessario atteso che nel procedimento sono state autorizzate plurime intercettazioni. Non di meno, con riguardo alla lamentata insussistenza del presupposto dell’urgenza in merito alla disposizione dell’intercettazione dei colloqui effettuati in carcere, il motivo risulta altresì manifestamente infondato, atteso che il requisito dell’urgenza deve sussistere al momento dell’adozione del provvedimento autorizzativo, rimanendo irrilevanti eventuali accadimenti successivi che abbiano imposto il differimento dell’esecuzione delle operazioni di captazione.
5.2 Quanto al ricorso di F.F. deve osservarsi che la doglianza relativa all’inutilizzabilità derivata delle intercettazioni è genericamente prospettata, atteso che il ricorrente non precisa quale sarebbe la patologia da cui sarebbero state afflitte le captazioni eseguite in altro procedimento le cui risultanze sarebbero state utilizzate ai fini dell’autorizzazione di quelle poste a sostegno della decisione impugnata. Peraltro va ricordato l’insegnamento di questa Corte per cui, in tema di prova, non sussiste l’inutilizzabilità derivata qualora siano disposte intercettazioni all’esito di intercettazioni inutilizzabili, in quanto ciascun decreto autorizzativo è dotato di autonomia e può ricevere impulso da qualsiasi notizia di reato, ancorchè desunta da precedenti intercettazioni inutilizzabili. Ne consegue che il vizio di cui sia affetto l’originario decreto intercettativo non si comunica automaticamente a quelli successivi, correttamente adottati e che, pertanto, non è inutilizzabile la prova che non sarebbe stata scoperta senza l’utilizzazione della prova inutilizzabile (Sez. 5, n. 4951/11 del 5 novembre 2010, Galasso, Rv. 249240). Con riguardo invece all’assenza del requisito dell’urgenza in relazione all’intercettazione ambientale in carcere valgono le osservazioni già svolte sub 5.1 trattando dell’analoga eccezione sollevata con il ricorso di F.R. e F.F..
5.3 Manifestamente infondate sono infine le censure dirette alla motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta legittimità dei decreti autorizzativi delle intercettazioni, atteso che la Corte territoriale ha adeguatamente argomentato in relazione alle censure prospettate in proposito con i motivi d’appello.
6. Sempre con riguardo alla dedotta inutilizzabilita di atti a contenuto probatorio, con entrambe i ricorsi presentati nell’interesse del R. è stata eccepita quella dei verbali degli interrogatori resi dal collaboratore S. in quanto non tempestivamente depositati prima dell’esercizio dell’azione penale, contestandosi al contempo la qualificazione, operata in sentenza, della loro acquisizione da parte del pubblico ministero quale atto di indagine suppletiva.
L’eccezione è manifestamente infondata. Per stessa ammissione dei ricorrenti l’acquisizione di suddetti verbali – formati in diverso procedimento – è effettivamente avvenuta dopo la presentazione della richiesta di rinvio a giudizio e gli stessi sono stati ritualmente messi a disposizione della difesa ai sensi dell’art. 419 c.p.p., comma 3. In tal senso non è dubbio, quindi, che l’acquisizione dei suddetti elementi di prova è avvenuta – come ritenuto dalla Corte territoriale – a seguito di un atto di indagine suppletiva, atteso che gli interrogatori sono stati resi per l’appunto in un procedimento diverso e il fatto che ciò sia avvenuto in data precedente a quella della richiesta di rinvio a giudizio non assume alcun rilievo, poichè sul pubblico ministero non gravava ovviamente alcun obbligo di discovery dei verbali nel procedimento di “origine”, nè un correlativo obbligo di provvedere all’acquisizione dei medesimi in quello di “destinazione” prima dell’esercizio dell’azione penale. In definitiva i ricorrenti affermano l’inutilizzabilità degli atti d’indagine suppletiva (rectius: dei risultati degli atti d’indagine suppletiva) che il pubblico ministero avrebbe potuto eseguire già prima dell’esercizio dell’azione penale. Ma si tratta di pretesa che non trova riscontro nella legge processuale, la quale, a garanzia del diritto di difesa, si limita a prescrivere, al momento della costituzione del contraddittorio processuale, il deposito delle fonti di prova su cui si fonda l’accusa, ma non impone al pubblico ministero scelte investigative, che rimangono invece nella sua esclusiva sfera di attribuzione. La stessa legge processuale, del resto, contempla il rimedio contro i possibili arbitri che lo stesso pubblico ministero potrebbe consumare nel nome della “strategia investigativa”. Infatti, il bilanciamento tra le diverse esigenze d’indagine e di esercizio della difesa trova il suo naturale punto di equilibrio proprio nell’affermazione di un generale principio di garanzia dell’accesso dell’imputato agli esiti di dell’attività investigativa liberata dai vincoli temporali, principio ricavabile dal terzo comma dell’art. 419 e dal secondo dell’art. 430 c.p.p., che per l’appunto impongono il tempestivo deposito anche degli atti delle indagini suppletive e di quelle integrative (Sez. 3, n. 8049 del 11 gennaio 2007, Santagata e altro, Rv. 236102).
Nel caso di specie, inoltre, al pubblico ministero non è attribuibile – come invece adombrato dai ricorrenti – alcun intento di comprimere in maniera surrettizia le prerogative della difesa, come peraltro testimonia già la tempestiva esecuzione degli adempimenti di cui all’art. 419, comma 3, che tali prerogative ha salvaguardato. Se infatti è vero che egli era a conoscenza della collaborazione del S. già prima della presentazione della richiesta di rinvio a giudizio – in quanto titolare anche del procedimento in cui la stessa si è manifestata – è altrettanto vero – come risulta dai ricorsi e dai verbali allegati a quello presentato dall’avv. (OMISSIS) – che l’assunzione delle sue dichiarazioni si è esaurita solo in data successiva e che era dunque impossibile acquisirle nella loro necessaria completezza in un momento anteriore.
7. L’ultimo profilo di inutilizzabilità è quello sollevato con il ricorso vergato personalmente da F.F., con il quale si lamenta l’inutilizzabilità derivata di non meglio precisati atti compiuti in altro procedimento oltre il termine di chiusura delle indagini preliminari. Il motivo è inammissibile in quanto manifestamente generico non individuando per l’appunto quali sarebbero gli atti asseritamente inutilizzabili.
8. Ancora carattere di pregiudizialità riveste la violazione dell’art. 649 c.p.p. eccepita con i ricorsi presentati nell’interesse di F.R. e F.F. in relazione alla condanna dei due imputati per il reato associativo di cui al capo 1) ed il lamentato difetto di motivazione della sentenza impugnata sull’analoga eccezione sollevata con i motivi d’appello.
La doglianza è manifestamente infondata, atteso che il reato associativo è stato contestato con riferimento ad un arco temporale successivo a quello asseritamente coperto dal giudicato invocato dai ricorrenti (che peraltro si sono limitati sul punto ad evocare in maniera del tutto generica sentenze assolutorie o di condanna riguardanti gli imputati) e dunque il fatto storico per cui è intervenuta condanna è diverso da quello per cui gli imputati sono stati eventualmente già giudicati, atteso che ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. Un,, n. 34655 del 28 giugno 2005, P.G. in proc. (OMISSIS) ed altro, Rv. 231799). La circostanza che la Corte territoriale abbia condannato gli imputati per il reato associativo anche utilizzando evidenze relative a fatti antecedenti rispetto a quelli oggetto della contestazione non è poi determinante per fondare l’eccezione sollevata dai ricorrenti, atteso che la loro valutazione risulta essere stata funzionale alla prova del fatto così come contestato. Conseguentemente non gravava sui giudici d’appello alcuno specifico ed ulteriore onere motivazionale in merito, atteso che nel conformare la propria decisione alla contestazione implicitamente già avevano corrisposto alle sollecitazioni avanzate in proposito dai ricorrenti.
9. Quanto agli altri motivi di ricorso, inammissibile è innanzi tutto il terzo di quello proposto dall’avv. (OMISSIS) nell’interesse di F.R. e F.F. in quanto del tutto generico e sostanzialmente teso ad ottenere un riesame del merito – non consentita in sede di legittimità – attraverso la rinnovata valutazione degli elementi probatori acquisiti. I ricorrenti infatti non si confrontano, se non limitandosi a negarne apoditticamente la coerenza ovvero proponendo una soggettiva rivisitazione del compendio probatorio, con la motivazione resa dalla Corte territoriale sulla posizione dei due imputati, senza riuscire ad individuare effettivi profili di manifesta illogicità della medesima.
10. Sorte non diversa deve essere riservata al secondo motivo proposto con il ricorso del G. perchè ancora una volta esulante dal novero di quelli consentiti dall’art. 606 c.p.p. Infatti le censure con esso elevate, dietro l’apparente denuncia di violazione di legge, si traducono nella sollecitazione di un riesame del merito – non consentita in sede di legittimità – attraverso la rinnovata valutazione degli elementi probatori acquisiti.
10.1 La Corte territoriale ha dato pienamente conto delle ragioni che l’hanno indotta ad accreditare l’ipotesi accusatoria ed in tal senso ha fornito ampia giustificazione alla valutazione compiuta sulle prove ritenute indicative della partecipazione del G. al sodalizio mafioso, rispondendo puntualmente alle obiezioni sollevate con i motivi d’appello in proposito e riproposte in questa sede. In particolare non appare manifestamente illogica la deduzione dell’intraneità dell’imputato all’associazione dal fatto che questi fosse stato stabilmente adibito a fare da autista al “capo” del sodalizio e si fosse prestato a fungere da prestanome nell’intestazione di beni del medesimo, in entrambe i casi al fine di fronteggiare le conseguenze dell’applicazione al F. delle misure di prevenzione. Comportamenti che peraltro – contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente – definiscono il preciso ruolo ricoperto dal G. in seno al sodalizio e che, in forza della qualifica del soggetto in favore del quale sono stati tenuti e delle ragioni per cui sono stati posti in essere, rivelano immediatamente la sua consapevolezza di inserirsi organicamente nel medesimo.
Meramente congetturali risultano poi le obiezioni relative al contenuto delle confidenze fatte dal F. all’imputato in ordine alle attività della cosca ed invece generiche quelle ad oggetto i danneggiamene subiti dal G., atteso che prescindono dal necessario confronto con la specifica motivazione resa in proposito in sentenza.
10.2 La linea argomentativa così sviluppata è immune da qualsiasi caduta di consequenzialità logica, evidenziabile dal testo del provvedimento, mentre il tentativo del ricorrente di prospettare una diversa ricostruzione del fatto si risolve, per l’appunto, nella prospettazione di una lettura soggettivamente orientata del materiale probatorio alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito nel tentativo di sollecitare quello di legittimità ad una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o all’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei medesimi, che invece gli sono precluse ai sensi del citato art. 606, lett. e).
11. E’ parimenti inammissibile il secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse di F.F., con il quale si censura la motivazione della sentenza in merito alla prevalenza riservata dalla Corte territoriale alla intervenuta prescrizione del reato di cui al capo 19) piuttosto che alla prova emergente dagli atti dell’insussistenza del medesimo. Ricordato il costante insegnamento di questa Corte, per cui in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione ictu oculi, che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. Un., n. 35490 del 28 maggio 2009, Tettamanti, Rv. 244274), deve osservarsi come la sentenza impugnata abbia giustificato, in maniera tutt’altro che irragionevole, la propria decisione in relazione al contenuto di una conversazione oggetto di captazione intervenuta tra l’imputato e il padre F.R., ritenuta ostativa al riconoscimento di una situazione probatoria connotata dalla necessaria evidenza in grado di giustificare il proscioglimento nel merito. Invero l’asserita conflittualità tra il significato probatorio dell’intercettazione e quanto invece dovrebbe dimostrare la documentazione (soltanto genericamente) evocata dal ricorrente comunque avrebbe imposto quegli approfondimenti istruttori impediti dalla sopravvenienza della causa estintiva, non rivelando per l’appunto l’automatica insussistenza del fatto, tanto più che oggetto di contestazione è solo il tentativo di frode e dunque l’affermazione della prospettata impossibilità di verificazione dell’evento avrebbe necessariamente richiesto accertamenti in merito alla effettiva natura delle verifiche effettuate dall’autorità di controllo.
12. I motivi proposti nell’interesse di R.S. sono invece parzialmente fondati nei limiti che di seguito verranno illustrati.
12.1 Il terzo ed il quarto motivo del ricorso dell’avv. (OMISSIS), nonchè i primi due del ricorso dell’avv. (OMISSIS) ed il secondo dei motivi aggiunti (di per sè inammissibile in quanto teso ad introdurre un profilo – quello della violazione del vincolo di rinvio – non sollevato con i motivi principali) possono essere trattati congiuntamente, attenendo tutti alla riconosciuta partecipazione del R. al sodalizio mafioso di cui al capo 1) e alla stessa configurabilità di quest’ultimo. Peraltro devono tutti essere giudicati inammissibili in quanto sostanzialmente le censure elevate con gli stessi, anche quando apparentemente orientate alla denuncia di violazioni di legge, si traducono per l’ennesima volta nella sollecitazione di un riesame del merito – non consentita in sede di legittimità – attraverso la rinnovata valutazione degli elementi probatori acquisiti. Anche in questo caso la Corte territoriale ha fornito ampia motivazione sulle ragioni che consentono di ritenere fondata l’accusa mossa al R. di aver partecipato al sodalizio mafioso facente capo ai F. e la stessa riconoscibilità di quest’ultimo. Motivazione che appare non manifestamente illogica e coerente al compendio probatorio di riferimento, anche tenuto conto della motivazione della conforme sentenza di primo grado a cui quella dei giudici d’appello ha inteso saldarsi.
In particolare la sentenza impugnata fa riferimento alle convergenti dichiarazioni eteroaccusatorie provenienti da collaboranti gravitanti nell’ambiente ‘ndranghetista e non alla prova delle attività criminali accertate per il periodo successivo alla fuoriuscita dell’imputato dall’associazione, per cui alcuna distonia si registra in tal senso nel percorso argomentativo seguito dai giudici d’appello. Quanto alla valutazione di tali dichiarazioni gli stessi giudici hanno dimostrato di fare buon governo dei consolidati principi elaborati in proposito da questa Corte e di cui il ricorrente lamenta invece la violazione, atteso che essi hanno proceduto all’individuazione di un inequivocabile nucleo comune del narrato dei diversi collaboratori specificamente concernente la riconoscibile appartenenza del R. anche nel periodo di contestazione ad una autonoma articolazione del compendio mafioso ‘ndranghetista coagulatasi attorno ai componenti della famiglia F. ed operante nel territorio di San Gregorio d’Ippona. Nè in tal senso le dichiarazioni poste a fondamento del giudizio di responsabilità dell’imputato necessitavano dell’acquisizione di ulteriori riscontri – come lamentato dai ricorrenti -, atteso che le sentenze dei giudici di merito evidenziano in maniera esaustiva e non manifestamente illogica il perimetro di rilevanza della loro convergenza, dando altresì conto della fonte di conoscenza dei propalanti, tutti soggetti, come già ricordato, intranei all’ambiente mafioso in cui si riconoscevza il gruppo F.
12.2 Inammissibili, in quanto generici, sono altresì le doglianze dedotte nella seconda parte del quinto motivo del ricorso dell’avv. (OMISSIS) e nella seconda parte del secondo motivo dell’avv. (OMISSIS), nonchè nel terzo motivo aggiunto, tutti concernenti il difetto di motivazione in merito alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 4 e all’estensione della medesima al R.. Sul punto legittimamente la sentenza impugnata ha richiamato la motivazione di quella di primo grado, ricordando le convergenti dichiarazioni dei numerosi collaboratori utilizzate (e specificamente analizzate) dal giudice di prime cure per dimostrare il carattere armato dell’associazione, mentre i ricorrenti si sono limitati a contestare in maniera, per l’appunto, generica la carica probatoria o la riferibilità al R. delle stesse. Dal compendio probatorio richiamato emerge invece la stabile disponibilità di armi sia da parte della cosca F. che specificamente da parte dello stesso R., circostanza sulla quale deve pertanto ritenersi che la Corte territoriale abbia implicitamente e coerentemente fondato la propria convinzione circa la consapevolezza da parte dell’imputato del carattere armato del sodalizio cui aderiva. Quanto infine ai precedenti penali in materia di armi del F.R., effettivamente evocati da entrambi i giudici di merito, se è vero che ai fini della prova dell’aggravante prevista dall’art. 416 bis c.p., comma 4, sono inconferenti i precedenti penali per reati concernenti le armi a carico dei singoli partecipi (Sez. 2, n. 5386 del 15 aprile 1994, Matrone ed altri, Rv. 198650), non di meno i ricorrenti non hanno saputo dimostrare in che modo l’argomento, posto quanto osservato in precedenza, avrebbe assunto carattere di decisività nell’economia del ragionamento probatorio svolto dai giudici d’appello.
12.3 Infondati sono altresì il secondo e la prima parte del quinto motivo del ricorso dell’avv. (OMISSIS) con il quale si lamenta la violazione del divieto di reformatio in peius, il correlato difetto di motivazione sull’attribuzione al R. di ruoli apicali in seno al sodalizio mafioso, nonchè l’estinzione del reato di partecipazione all’associazione per intervenuta prescrizione.
12.3.1 Non è in dubbio che il giudice di primo grado abbia derubricato l’originaria contestazione di direzione ed organizzazione della cosca F. in quella di mera partecipazione alla medesima, stabilendo che la condotta effettivamente attribuibile al R. si fosse definitivamente consumata nel 1995 in occasione dell’attentato subito dall’imputato, episodio che ne aveva determinato la fuoriuscita dal sodalizio. Invero la sentenza impugnata non ha – contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente – in alcun modo proceduto ad una riqualificazione del fatto per cui è intervenuta condanna in primo grado in senso sfavorevole al R., atteso che il riferimento contenuto a p. 10 della stessa alle “attività di promozione, direzione e partecipazione” ed ai commi primo e secondo dell’art. 416 bis c.p. è palesemente finalizzato a sintetizzare l’intero orizzonte delle condotte rispettivamente ascrivibili ai diversi imputati giudicati. Prova ne sia che nel rideterminare il trattamento sanzionatorio (p. 37 della sentenza) la Corte territoriale ha calcolato la pena base per il ritenuto più grave reato associativo in maniera inferiore a quanto operato per F.R. e F.F., ai quali invece è stato riconosciuto un ruolo apicale in seno al sodalizio. E sempre in tale senso deve evidenziarsi che nella dosimetria di tale pena i giudici d’appello hanno affermato di volersi attestare sui valori medi edittali espressi dall’art. 416 bis c.p., che per il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso aggravata dal carattere armato coincidevano all’epoca dei fatti per l’appunto con i cinque anni dichiarati in sentenza.
12.3.2 Nè per altro verso può ritenersi che al momento della pronunzia della sentenza d’appello (e pervero nemmeno allo stato) si fosse compiuta la prescrizione, ancorchè, come ricordato, la data finale della consumazione del reato sia stata individuata nel 1995 e non in un momento successivo come avvenuto, per gli altri imputati per cui è intervenuta condanna. A quell’epoca la fattispecie di partecipazione ad associazione mafiosa era punita con la reclusione da tre a sei anni e pertanto, ai sensi dell’art. 157 c.p. nella sua formulazione previgente (cui deve farsi riferimento essendo intervenuta la condanna di primo grado in momento successivo all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005), il termine di prescrizione ordinario applicabile era quello di anni dieci e quello prorogato di anni quindici. Peraltro in entrambe i giudizi di merito è stata riconosciuta, come già illustrato, l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 416 bis c.p., comma 4, in forza della quale, sempre nel 1995, la pena edittale cui fare riferimento diventava quella della reclusione da quattro a dieci anni e, conseguentemente, i termini di prescrizione quelli, rispettivamente, di quindici anni e di ventidue anni e sei mesi, termine quest’ultimo che non si è ancora compiuto (per completezza va rilevato che a conclusioni non diverse si giungerebbe applicando il computo della prescrizione introdotto dalla menzionata L. n. 251 del 2005, atteso che in forza del novellato art. 157 c.p., comma 6, il termine prorogato di dodici anni e sei mesi dovrebbe poi essere raddoppiato risultando pertanto pari a venticinque anni e quindi, tra l’altro, anche meno favorevole).
12.4 E’ invece fondato il settimo motivo del ricorso dell’avv. (OMISSIS), il cui accoglimento assorbe i residui motivi presentati con il medesimo ricorso, nonchè il terzo ed il quarto motivo del ricorso dell’avv. (OMISSIS) e i corrispondenti motivi aggiunti. Infatti la sentenza impugnata determina genericamente “in misura superiore al 10%” il tasso asseritamente usuraio degli interessi applicati al prestito concesso al B.N. e di cui al capo 17), senza chiarire per quali ragioni tale indefinita “misura” implicherebbe necessariamente la natura per l’appunto usuraia di tali interessi alla luce della normativa vigente sul punto all’epoca (e cioè nell’arco temporale di contestazione compreso tra il febbraio 2002 e l’agosto 2003).
12.4.1 In proposito va infatti innanzi tutto ricordato in diritto che ai sensi della L. 28 febbraio 2001 n. 24, art. 1, gli interessi devono ritenersi usurari se eccedono il limite legale al momento della loro pattuizione e non del loro pagamento e ciò a prescindere dal fatto che il reato di usura possa ritenersi consumato in tale secondo momento S (Sez. F., n. 32362 del 19 agosto 2010, Scuto ed altri, Rv. 248142). A sua volta, come noto, il tasso legale di soglia viene determinato, ai sensi della L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, aumentando della metà i valori determinati periodicamente con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze sulla base dei tassi effettivi globali medi (TEGM) rilevati dalla banca d’Italia e dall’Ufficio Italiano Cambi.
12.4.2 Nel capo d’imputazione 17) è stato effettivamente contestato all’imputato che gli interessi di cui si tratta dovevano considerarsi usurari in relazione al limite fissato nel decreto ministeriale “vigente all’epoca della pattuizione”, senza peraltro precisare oltre. La Corte territoriale non ha a sua volta chiarito a quale provvedimento normativo abbia fatto concretamente riferimento nel determinare il valore soglia assunto per compiere la valutazione sulla natura usuraia degli interessi, nè quale tra i diversi valori in esso elencati (e corrispondenti alle diverse categorie di operazioni oggetto di rilevazione) abbia inteso identificare come effettiva base per il calcolo della natura usuraia dei tassi praticati dal R..
12.4.3 Omissione questa che non consente di verificare la correttezza della valutazione compiuta in sentenza. Infatti, qualora dovesse ritenersi che la pattuizione degli interessi sia avvenuta in coincidenza del primo dei riferimenti temporali contenuti nell’imputazione (e cioè il febbraio 2002) il decreto ministeriale di riferimento sarebbe stato – come sostenuto dal ricorrente – quello del 14 dicembre 2001, che determinava i TEGM per il trimestre 1 gennaio/31 marzo 2002. Il tasso di riferimento da estrapolare da tale decreto avrebbe dovuto a questo punto essere identificato in quello del 17,07%, relativo all’interesse praticato sui finanziamenti e sui crediti personali superiori ai 5.000 Euro (atteso che il capitale oggetto del prestito è stato accertato in sentenza ammontare a 30.000 Euro) dagli intermediari non bancari, valore che avrebbe poi dovuto essere aumentato della metà al fine di ottenere il limite legate oltre il quale all’epoca un tasso poteva effettivamente considerarsi usuraio.
12.4.4 In tal senso dunque la sentenza deve ritenersi sul punto priva di adeguata motivazione, conclusione che dovrebbe rassegnarsi anche qualora l’intenzione della Corte territoriale fosse stata quella di affermare comunque la natura usuraia del tasso d’interesse praticato dal R., ancorchè accertato in misura inferiore al limite di legge e cioè evocando la fattispecie prevista dalla seconda parte dell’art. 644 c.p., comma 3, atteso che in proposito la stessa avrebbe in ogni caso omesso di argomentare sullo stato di difficoltà economica o finanziaria della persona offesa, nonchè sulla compatibilità di una siffatta ricostruzione della fattispecie con il profilo del fatto effettivamente contestato nell’imputazione. E parimenti insufficiente si rivelerebbe la motivazione anche qualora i giudici d’appello avessero voluto fare riferimento ad una progressiva pattuizione degli interessi nell’arco temporale identificato nell’imputazione come quello di consumazione del rapporto usuraio, talchè anche in tal caso avrebbero dovuto di volta in volta individuare i decreti ministeriali eventualmente rilevanti – secondo lo schema esposto al punto precedente -accertando le diverse soglie il cui superamento avrebbe determinato il carattere usuraio degli interessi praticati.
12.4.5 La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con riferimento alle statuizioni relative al capo 17), con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro per nuovo esame alla luce dei principi enunciati e dei rilievi svolti. L’accoglimento delle doglianze sulla configurabilità del reato ha, come detto, carattere assorbente degli ulteriori motivi attinenti il riconoscimento dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 avanzati (anche come motivi aggiunti) da entrambe i difensori, ma anche di quello relativo al mancato riconoscimento all’imputato delle attenuanti generiche.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla statuizione relativa a R.S. correlata al capo 17 della imputazione, con rinvio alla Corte di appello di Catanzaro, altra Sezione per nuovo esame sul punto.
Rigetta il ricorso del R. nel resto.
Rigetta altresì tutti gli altri ricorsi condannando F. R., F.F., F.F. e G.D. al pagamento delle spese del procedimento.
Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2013
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Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 151/2013