L’indebita utilizzazione, a fine di profitto proprio o altrui, da parte di chi non ne sia titolare, di una carte di credito integra il reato di cui all’art. 55, co. 9, D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231 e non il reato di truffa, che resta assorbito in quanto l’adozione di artifici o raggiri è uno dei possibili modi in cui si estrinseca l’uso indebito di una carta di credito.
Questo il principio espresso dalla Corte penale di Cassazione, Pres. Gallo – Rel. Pardo, con la sentenza n. 55438 del 12.12.2018.
IL CONTESTO NORMATIVO
Decreto Legislativo del 21/11/2007 n. 231 (versione vigente all’epoca dei fatti)
Art. 55 – Sanzioni penali
- Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque contravviene alle disposizioni contenute nel Titolo II, Capo I, concernenti l’obbligo di identificazione, è punito con la multa da 2.600 a 13.000 euro.
- Salvo che il fatto costituisca più grave reato, l’esecutore dell’operazione che omette di indicare le generalità del soggetto per conto del quale eventualmente esegue l’operazione o le indica false è punito con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa da 500 a 5.000 euro.
- Salvo che il fatto costituisca più grave reato, l’esecutore dell’operazione che non fornisce informazioni sullo scopo e sulla natura prevista dal rapporto continuativo o dalla prestazione professionale o le fornisce false è punito con l’arresto da sei mesi a tre anni e con l’ammenda da 5.000 a 50.000 euro.
- Chi, essendovi tenuto, omette di effettuare la registrazione di cui all’articolo 36, ovvero la effettua in modo tardivo o incompleto è punito con la multa da 2.600 a 13.000 euro.
- Chi, essendovi tenuto, omette di effettuare la comunicazione di cui all’articolo 52, comma 2, è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa da 100 a 1.000 euro.
- Qualora gli obblighi di identificazione e registrazione siano assolti avvalendosi di mezzi fraudolenti, idonei ad ostacolare l’individuazione del soggetto che ha effettuato l’operazione, la sanzione di cui ai commi 1, 2 e 4 è raddoppiata.
- Qualora i soggetti di cui all’articolo 11, commi 1, lettera h), e 3, lettere c) e d), omettano di eseguire la comunicazione prevista dall’articolo 36, comma 4, o la eseguano tardivamente o in maniera incompleta, si applica la sanzione di cui al comma 4.
- Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi, essendovi tenuto, viola i divieti i comunicazione di cui agli articoli 46, comma 1, e 48, comma 4, è punito con l’arresto da sei mesi a un anno o con l’ammenda da 5.000 a 50.000 euro.
- Chiunque, al fine di trarne profitto per se’ o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 a 1.550 euro. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per se’ o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi.
IL PROCESSO
I giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi sul ricorso proposto avverso la sentenza del giudice di appello che aveva condannato gli imputati alle pene di legge in quanto ritenuti responsabili del delitto di utilizzo abusivo di carta di credito di cui all’art. 55.D. Lgs. n. 231 del 2007.
I ricorrenti hanno dedotto la violazione di legge e il difetto di motivazione della sentenza gravata relativamente alla qualificazione giuridica dei fatti che andavano ricondotti all’ipotesi della truffa informatica di cui all’art. 640 ter c.p. poiché avevano carpito fraudolentemente i codici di accesso senza entrare in possesso della carta così da potere integrare il contestato e ritenuto reato di cui al D.lgs. 231 del 2007.
La Corte adita ha rappresentato che l’utilizzo abusivo della carta di credito di cui all’art. 55, comma 9, D.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, è compiuto da chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi.
Il reato de quo è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 a 1.550 euro. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi.
Orbene, è evidente che per consumare il suddetto delitto non è indispensabile il materiale possesso della carta di credito o di pagamento essendo anche solo sufficiente il possesso dei codici della stessa carta e dei codici personali utilizzati a fini di profitto personale od anche a vantaggio di terzi.
La tesi dei ricorrenti, secondo cui sarebbero incorsi nel reato di frode informatica di cui all’art. 640 ter c.p. è priva di fondamento in quanto la norma è volta a sanzionare la condotta di colui il quale, “alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno“.
In tal senso, è richiesto quale elemento differenziale e specifico l’accesso al sistema e non anche il semplice utilizzo di dati personali comunque illecitamente acquisiti.
Gli ermellini hanno, dunque, evidenziato che nel caso in esame, i due imputati avevano fatto utilizzo della carta e dei codici senza esserne titolari per effettuare pagamenti presso un sito on line; gli stessi, quindi, non avendo fatto accesso ad alcun sistema informatico riservato, correttamente sono stati ritenuti responsabili del delitto loro esattamente contestato, ossia, quello di cui all’art. 55 D.lgs. 231/2007.
Per le suesposte motivazioni, la Corte adita ha dichiarato inammissibili i ricorsi ed ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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